“Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni dall’uscita di Tommy, non si parla più solo di disabilità e di terapie ma anche e soprattutto di inclusività, di Design for All, di partecipazione e condivisione”
OFFICINA* 08 | settembre - ottobre 2015
“Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni dall’uscita di Tommy, non si parla più solo di disabilità e di terapie ma anche e soprattutto di inclusività, di Design for All, di partecipazione e condivisione”
Non è facile parlare di Progetto Inclusivo: attorno a tale termine si allaccia un’articolata rete di implicazioni umane, culturali, tecniche e normative che ne determinano la delicata complessità.
Vorrei però partire da una considerazione. Troppo spesso, erroneamente, si intende il progetto pensando ad un universale e ipotetico standard omologato, a cui tutti, chi più chi meno, aneliamo. Ci hanno abituato che un simbolo può essere identificativo di una ben più variegata forma di unicità, creando una cultura diffusa di codificazioni e significati impropri.
Ciò che questo numero di OFFICINA* cerca di fare è sradicare un probabile senso comune del concetto di disabilità, e ripartire dalla considerazione “dell’esigenza”. Si fa strada la convinzione sempre più matura di dover riconoscere alla Persona la sua propria, individuale sfera di necessità ed esigenze. Parlare di Progetto Inclusivo diventa quindi un capovolgimento di senso, la ricerca di una nuova codificazione dei significanti della vita comune, perché i significati siano liberamente interpretabili da ciascuno, a proprio modo. Quindi da tutti. Diventa quindi un processo di ribaltamento e di rimessa in discussione di un codice, come la copertina di questo numero ben illustra: la possibilità, e la responsabilità, di creare un nuovo vocabolario.
Il modo migliore per poter fare questo, è aprirsi alla possibilità di considerare criticamente il tema, attraverso una varia – seppur non completa – indagine delle tematiche che lo attraversano. Partire dalle parole che lo determinano è una scelta dettata dalla necessità di fare chiarezza: Universal Design, Design for All, Progetto Inclusivo presentano delle – seppur minime – differenze. Saper utilizzare gli strumenti adeguati è il primo passo alla gestione di un progetto, sia esso a scala urbana – nell’applicazione a contesti territoriali, di mobilità e comunitari – o a quella architettonica – di progetto o riqualificazione dell’esistente – o di design – oggetto, tecnologie, grafica. Il Progetto Inclusivo è di fatto, per sua natura, multiscalare e transdisciplinare: etimologicamente composto di pro- (in avanti) e iacere (gettare), indica l’intenzione di gettare di avanti, di proiettare in avanti. Il Progetto Inclusivo quindi non può prescindere dalla dotazione di un adeguato apparato formativo, che per antonomasia è il pro-getto più lungimirante. Mi ha sempre affascinato pensare all’esplicitazione di una progettualità come alla delicata strutturazione di un testo, un saggio o, nella migliore delle ipotesi, un testo poetico.
Sono molti, soprattutto nel mondo dell’architettura, i riferimenti alla struttura testuale nella stesura di un progetto. Ma questo fatto denuncia un’urgenza, che in quanto architetto personalmente sento. È l’urgenza di scrivere un “testo” che deve poter essere letto. È la necessità di poter dotare il proprio progetto di un senso condivisibile e condiviso. Non basta poter guardare, bisogna saper guardare alla complessità e in questo senso, per certi versi, forse, siamo tutti un po’ disabili.
It’s not easy to talk about Inclusive Design: around this term there is an articulated network of human, cultural, technical and normative implications that determines its delicate complexity. However, I would like to start with a consideration. Too often, mistakenly, we consider the project thinking about a hypothetical universal standard we all , some more than others, yearn for.
We got used to think that a unique symbol could identify a more varied form of uniqueness, creating a widespread culture of codification and inappropriate meanings. What this issue of OFFICINA* ties to do is to eradicate a possible pervasive sense of the concept of disability and restarting from the consideration of needs. This develops an increasingly strong belief to recognize the Person his own, individual sphere of needs and requirements. Talking about inclusiveness becomes an inversion of meaning, the search for a new codification of signifiers of common life because the meanings could be freely interpretable by each one, in his own way. So by all. It therefore becomes a rollover process and recall into question of a code, as the cover of this magazine exemplifies the opportunity, and the responsibility, to create a new vocabulary. The best way to do this is opening the possibility of considering the issue critically, through a varied – though not exhaustive – investigation of the themes associated with it. Opening with the words used in this field is a choice due to the need to clarify: Universal Design, Design for All, Inclusive Design have some – although minimal – differences. Using the right tools is the first step for the management of a project in a urban scale – in territorial, mobility and communities contexts – or in the architectonical scale – of architectural project and requalification – or in the design scale – as for objects, technologies and graphics.
Inclusive Design is, for its own definition, multi-scaled and multi-disciplinary. Etymologically composed of pro- (forward) and iacere (throw), it indicates an intention to dispose in the future, to project forward. The inclusive design so cannot be separated from a suitable formative and training apparatus, which is by definition the most forward-looking pro-ject. It always fascinated me thinking about the project as a explicitation of the delicate structure of a text, an essay or, in the best case, a poem. Many are, especially in the world of architecture, the references to the textual structure in the drafting phases of a project. But this fact highlight a urgency, that as an architect, I personally feel. It is the urgent need to write a “text” that must be read. It’s the need to be able to provide the project a sense of agreeable and shared.
It’s not sufficient to be able to watch, but it’s necessary to know how to look the complexity and in this sense, in some ways, perhaps, we are all a bit disabled.
N.08 settembre – ottobre 2015
Bimestrale di Architettura e Tecnologia
Digitale ISSN 2384-9029
Introduzione
di Francesca Guidolin
Parole
di Valeria Tatano
Spazi urbani inclusivi e processi partecipati per una migliore qualità della vita
di Elisabeth Antonaglia, Barbara Chiarelli, Silvia Grion
Design for Duchenne
di Michele Marchi
Un museo per tutti
di Serena Ruffato
Turismo accessibile
di Francesca Guidolin
Progetto inclusivo
di Elisabetta Schiavone
ESPLORARE
Notte europea dei ricercatori
di Emilio Antoniol
Digital takes command
di Emilio Antoniol
Learn from Masters
di Francesca Guidolin
PORTFOLIO
OFFICINA* ad Expo 2015
foto di Valentina Covre, testi di Emilio Antoniol
IN PRODUZIONE
Tarta
di Tommaso di Bert
VOGLIO FARE L’ARCHITETTO
Pensare e progettare in maniera sostenibile
di Elena Leonardelli
IMMERSIONE
R.E.S.E.T. tre edizioni di un workshop nato per valorizzare patrimonio edilizio e territorio
di Luana Del Prete
DECLINAZIONI
Fosforescenze/wayshowing/wayfinding
di Francesca Guidolin e Emilio Antoniol
MICROFONO ACCESO
OUALALOU+CHOI
a cura di Francesca Guidolin
CELLULOSA
Forma o funzione?
a cura di Emilio Antoniol
(S)COMPOSIZIONE
Ad agosto vado in ferie e stacco il telefono!
di Valentina Covre