“Potrebbe sembrare curioso domandarsi, in un’epoca caratterizzata da società secolarizzate e in larga parte omologate dalla religione della merce, se esista oggi un valore, un ruolo per la sacralità dello spazio architettonico.”
OFFICINA* 26 | luglio - settembre 2019
“Potrebbe sembrare curioso domandarsi, in un’epoca caratterizzata da società secolarizzate e in larga parte omologate dalla religione della merce, se esista oggi un valore, un ruolo per la sacralità dello spazio architettonico.”
La permanenza dello spazio sacro dell’architettura
Potrebbe sembrare curioso domandarsi, in un’epoca caratterizzata da società secolarizzate e in larga parte omologate dalla religione della merce, se esista oggi un valore, un ruolo per la sacralità dello spazio architettonico.
Il tema è sicuramente troppo vasto e complesso perché queste poche righe possano affrontarlo con l’attenzione e la completezza necessarie. Per iniziare però a sondarlo può essere utile partire dal significato etimologico del termine “sacro”. Nella lingua ebraica, carattere che permane anche nelle lingue greca e latina, esso indica ciò che è “separato”, ossia che rinsalda il rapporto con Dio o, in termini più generali, con la trascendenza, perché distante, “altro” rispetto a ciò che è quotidiano, profano.
La celebrazione di questa separazione si è sempre manifestata simbolicamente nella costruzione di manufatti che con la loro presenza e la loro forma esprimessero l’aspirazione all’unione tra i due misteri della terra e del cielo. Un atto che è sempre coinciso col valore simbolico più profondo dello spazio architettonico, se è vero che l’architettura, ossia quel costruire che non dà semplice risposta alle esigenze primarie da sempre, per statuto, ha costruito la Casa del Dio, il luogo nel quale celebrare e ritualizzare la presenza del mistero della trascendenza. Uno spazio dotato di senso dove può accadere la ierofania, la manifestazione del sacro, di ciò che è al di là della realtà tangibile, di quell’universo quotidiano razionalmente interpretabile.
Ora, se da un lato la modernità ha aperto il recinto dell’architettura allo spazio del quotidiano, portando ad esempio il tema della casa dell’uomo qualunque, quella che Adolf Loos con la sua logica tagliente e per certi aspetti spietata affermava non aver niente a che vedere con l’arte e l’architettura, dall’altro la semplificazione formale – operata dalle avanguardie dell’inizio del XX secolo – ha contribuito a concentrare ed essenzializzare i caratteri dello spazio architettonico, operazione pertinente a quella sintesi necessaria a definire la sacralità dello spazio.
Questo passaggio in Occidente ha aperto a una diversa nozione di spazio sacro, non più necessariamente legato alla sola religione. Certo amplissima è la casistica di edifici religiosi che nell’arco di poco più di un secolo hanno scritto la storia dell’architettura moderna e contemporanea, a cominciare dalla Sagrada Familia che, riproponendo i lunghi iter realizzativi delle grandi cattedrali europee, sta lentamente arrivando al suo compimento, ben oltre la scomparsa del suo progettista. Per continuare con i capolavori lecorbusieriani di Ronchamp, de La Tourette e di Firminy, o le raffinatissime prove di Saarinen, di Aalto e di Niemeyer, le drammatiche ed espressive spazialità di Michelucci, o in tempi più vicini a noi, con le materiche stereometrie di Botta, contrappuntate dalle laconiche cappelle di Siza e di Ando.
Ma è indubbio che proprio questa sinteticità formale, che ha abbandonato la sintassi naturalistica degli ordini architettonici, abbia aperto a una dimensione sacra dello spazio che include non più solo gli edifici strettamente destinati al culto.
Sembra infatti difficile non percepire la sacralità di spazi come quelli della Neue Nationalgalerie di Berlino, di Mies Van der Rohe, o per limitarci a un solo altro esempio, a quelli della casa che Luis Barragan realizza per sé a Città del Messico. Spazi dove il tempo si sospende, si arresta, dove la destinazione d’uso arretra per consentire l’ingresso di quella dimensione della “separazione”, di ciò che è fuori dall’ordinario, del quotidiano, appunto del sacro.
Ecco allora che potremmo dire che questa dimensione è immanente alla grande architettura e, malgrado il mutare dei tempi, del pensiero e della cultura, accompagnerà sempre l’uomo finché avrà la capacità di interrogarsi sulle ragioni profonde del suo essere e del suo destino. Valerio Palmieri
The permanence of the architecture sacred space
It might seem curious to ask if, in a time characterized by secularized societies and largely homologated by the religion of the commodity, today there is a value or a role for the sacredness of the architectural space.
The theme is certainly too vast and complex to be analyzed in these few lines with the necessary attention and completeness. But to start probing it can be useful to start from the etymological meaning of the word “sacred”. In the Hebrew language, a character that persists even in the Greek and Latin languages, it indicates what is “separate”, that strengthens the relationship with God or, in more general terms, with the transcendence, because it is distant, “other” than what it is daily, profane.
The celebration of this separation has always manifested itself symbolically in the construction of artifacts that with their presence and their form express the aspiration to the union between the two mysteries of the earth and the sky. An act that has always coincided with the deeper symbolic value of architectural space, if it is true that architecture, that is building that does not simply respond to the primary needs, has always built, by statute, the House of God, the place in which celebrate and ritualize the presence of the mystery of transcendence. A space endowed with meaning where can happen a hierophany, the manifestation of the sacred, of which is beyond the tangible reality, of that is beyond the rationally interpretable daily universe.
If on the one hand modernity has opened the fence of architecture to the space of everyday life, bringing for example the theme of the house of the ordinary man, the one that Adolf Loos with his sharp logic and in some ways ruthless claimed it had nothing to do with art and architecture, on the other the formal simplification operated by the avant-gardes of the beginning of the 20th century, has contributed to concentrating and essentializing the characters of architectural space, an operation pertinent to that necessary synthesis to define the sacredness of the space.
This passage in the West has opened up to a different notion of sacred space, no longer necessarily linked only to religion. Of course, the number of religious buildings that have written the history of modern and contemporary architecture, starting with the Sagrada Familia, which, proposing the long realization steps of the great European cathedrals, is slowly coming to its completion, also after the disappearance of its designer. To continue with the Le Corbusier’s masterpieces of Ronchamp, of La Tourette and Firminy, or the very refined projects of Saarinen, Aalto and Niemeyer, the dramatic and expressive spatiality of Michelucci, or closer to us, with the material stereometries of Botta, counterpointed by the laconic chapels of Siza and Ando.
But there is no doubt that this formal synthesis, which has abandoned the naturalistic syntax of architectural orders, has opened up to a sacred dimension of space that no longer includes only the buildings strictly intended for worship.
In fact it seems difficult not to perceive the sacredness of spaces like those of the Mies Van der Rohe’s Neue Nationalgalerie in Berlin, or to limit ourselves to just one other example, of the house that Luis Barragan realizes for himself in Mexico City. Spaces where the time is suspended, where the use destination retreats to allow the entry of “separation” dimension, of what is out of the ordinary, of the everyday, precisely of the sacred.
Here then we could say that this dimension is immanent in the great architecture and, despite the changing of times, of thought and culture, it will always accompany man as long as he has the capacity to question himself on the deep reasons of his being and his destiny. Valerio Palmieri
N.26 luglio – settembre 2019
Trimestrale di Architettura, Tecnologia e Ambiente
Cartaceo ISSN 2532-1218
Digitale ISSN 2384-9029
Reg. Tribunale di Treviso n.245
Introduzione – La permanenza dello spazio sacro dell’architettura
Valerio Palmieri
Lo spirituale in architettura
Matteo Benedetti
Mete di pellegrinaggio laico
Chiara Semenzin
La sacralità nella macchina tra passato e presente
Gabriele Trovato
Ora et labora
Eugenio Armando De Nicola, Rosaria Revellini
La chiesa dell’Apostolo Pietro a Marzialnye Vody
Christian Toson
InFondo – I numeri del sacro
a cura di Stefania Mangini
ESPLORARE
Fabio Merotto, Margherita Ferrari
PORTFOLIO
La casa dell’oomo
a cura di Emilio Antoniol e Letizia Goretti
IN PRODUZIONE
Arte sacra nel nuovo millenio
Alessio Omassi
La Pieve di Sant’Andrea di Bigonzo
Emanuela Ruggio
I CORTI
La Cappella di Mario Botta e Giuliano Vangi ad Azzano di Seravezza
Enrico Bascherini
Templi prêt-à-porter: l’estetica dello spazio sacro e la sua metamorfosi
Barbara Bergamaschi
L’ARCHITETTO
Pellegrinaggio alla roccia
Babau Bureau, Jenni Lazari
La memoria profanata
Mattia Cocozza
Terremoto: il sacro in profano
Candida Maria Vassallo
L’IMMERSIONE
L’età della Profanazione
Margherita Fiorini, Michele Anelli-Monti
La quadratura del cerchio
Simone Amato Cameli
Tonnara di ritorno
Anna Berto, Vittoria Giuriolo, Eleonora Zanirato
CELLULOSA
Vangeli
a cura dei Librai della Marcopolo
(S)COMPOSIZIONE
Speranze
Emilio Antoniol